Questa sindrome prende il suo nome dal primo episodio in cui si verificò la sintomatologia che la riguarda e per essere più precisi nel 1973 quando gli ostaggi di una rapina ad una nota banca svedese, dopo sei giorni di prigionia, in seguito ad un contorto rapporto sviluppatosi con i propri carcerieri li difesero e chiesero per loro anche clemenza alle autorità.
Come è intuibile, questa particolare patologia psicologica consiste nel “sentimento” di attaccamento che per l’appunto il carcerato sviluppa, in modo del tutto illogico, verso il proprio carceriere. Insomma, gli ostaggi finiscono per vedere il sequestratore come un amico o anche più di quello.
Inoltre, il carcerato o l’ostaggio che dir si voglia tende ad enfatizzare qualsiasi gesto da parte del carceriere considerando qualsiasi ausilio, anche il più normale, (come ad esempio un bicchiere d’acqua o un piatto di cibo) come una manifestazione di affetto.
Ma qual è quindi la chiave di lettura di questa patologia?
Si pensa che questo comportamento scaturisca dal fatto che la persona che provoca la sensazione di paura e angoscia sia la stessa in grado di alleviarla : ciò innesca un meccanismo di difesa che comporta un addolcimento verso chi detiene il potere.
La sintomatologia può durare anche per anni.
Vi sono stati, nel corso degli anni, diversi casi alquanto famosi che hanno trovato una buona cassa di risonanza nei media.
Tra tutti quello di Elizabeth Smart, la quale tra il 2002 e il 2003 fu rapita, stuprata e tenuta come ostaggio da un uomo (affetto da turbe mentali) che la identificava come la propria moglie : la donna trascorse con lui svariati mesi senza essere costretta a farlo.
Tutt’oggi si mantiene una certa propensione a pensare che il famoso caso della ragazza austriaca di nome Natascha Kampusch, rimasta nelle mani del suo rapitore per quasi 8 anni, sia stato anch’esso un caso di sindrome di Stoccolma.
redazione Nuova Italia Medica