Il carcinoma della mammella è la neoplasia maligna del sesso femminile a più elevata incidenza nei paesi industrializzati; esso rappresenta circa un terzo delle nuove diagnosi di neoplasia della donna formulate ogni anno nel Nord America, mentre la sua incidenza annuale in Italia si attesta intorno ai 128 nuovi casi ogni 100.000 abitanti. Tale dato rappresenta la media nazionale, essendovi delle sostanziali differenze geografiche, con tassi d’incidenza più elevati al nord rispetto al sud. Nel corso dell’ultimo quinquennio, l’incidenza è aumentata in tutte le aree geografiche con valori oscillanti tra il 2 ed il 17%.
Quanto sopra descritto, rende, chiaramente conto di come il carcinoma della mammella è da considerarsi patologia ad elevato impatto sociale. La letalità, intesa come il rapporto intercorrente tra incidenza e mortalità, appare di contro in costante diminuzione in tutti i paesi occidentali grazie ad un calo della mortalità dovuto al miglioramento delle metodologie di screening della popolazione a rischio, all’affinamento delle tecniche chirurgiche e radioterapiche, ai progressi registrati nel campo dei farmaci antitumorali. La lotta contro il carcinoma della mammella può a buon diritto essere considerata esempio paradigmatico di come l’integrazione multidisciplinare di professionalità quali il biologo e l’oncologo preclinico, il radiodiagnosta, il patologo, il chirurgo, il radioterapista e l’oncologo medico produce una ricaduta benefica significativa sulla salute pubblica; occorre tener bene a mente che, proprio in base all’elevata incidenza, ogni piccolo incremento di efficacia dei trattamenti si traduce in decine di migliaia di vite salvate.
I fondamenti della gestione clinica del carcinoma mammario si sono notevolmente modificati nel corso dell’ultimo secolo. Dalla concezione Halstediana di malattia a diffusione prevalentemente loco-regionale, che portò il maestro della chirurgia statunitense a promuovere interventi chirurgici altamente demolitivi, finalizzati all’ottenimento di una radicalità locale; si è passati gradualmente all’adozione di procedure meno mutilanti grazie all’evidenza che, pur in assenza di recidive locali, la sopravvivenza a 10 anni delle pazienti trattate con interventi estensivi non superava il 12% a causa delle recidive a distanza. I dati pubblicati da Fischer nel 1978, attestanti la differenza di sopravvivenza globale a 10 anni intercorrente tra le pazienti con linfonodi esenti da interessamento di malattia (NO) rispetto alle pazienti con coinvolgimento linfonodale (N+) (75% vs.30%), spianarono la strada al moderno inquadramento del carcinoma mammario come malattia sistemica “ab initio”, caratterizzata dalla presenza di metastasi a distanza sub-cliniche nella maggior parte delle pazienti N+ ed in circa un terzo delle pazienti NO.
Ne derivarono due importanti implicazioni terapeutiche: 1) la possibilità di risparmiare ad una significativa quota di donne una chirurgia mutilante e 2) la necessità di porre in essere delle strategie di cura finalizzate all’eradicazione delle micrometastasi.
Il primo punto venne chiarito grazie ad uno studio prospettico e randomizzato condotto su donne con tumore delle dimensioni massime non superiori ai 2.5 cm. sul diametro maggiore, l’equivalente efficacia, in termini di percentuale di controllo locale di malattia e sopravvivenza globale, della quadrantectomia seguita da radioterapia somministrata sul parenchima residuo, rispetto alla mastectomia.
Il secondo punto venne sviluppato con l’introduzione dei trattamenti farmacologici, chemio- e/o ormonoterapici, somministrati dopo l’intervento chirurgico.
La chemioterapia adiuvante:
Tale procedura fonda il proprio razionale sull’ipotesi di esistenza di una correlazione inversa tra massa neoplastica iniziale e sua curabilità da attribuirsi al fatto che una singola dose di chemioterapico uccide una frazione costante di cellule neoplastiche (log-kill); essendo le metastasi presenti alla diagnosi “sub-cliniche”, si ipotizzò consistessero in una massa totale di malattia minima e tale da poter essere eradicata tramite l’utilizzo di farmaci sufficientemente attivi.
Tale ipotesi trovò conferma clinica nel primo studio randomizzato, in cui la somministrazione post-operatoria di dodici cicli di chemioterapia con schedala “CMF” (ciclofosfamide, fluorouracile e methotrexate) dimostrò di avere un’impatto favorevole sulla prognosi delle pazienti trattate, con un vantaggio in termini di sopravvivenza mediana rispetto alle pazienti sottoposte a solo intervento chirurgico altamente significativo. Questa prima esperienza condotta su pazienti con linfonodi positivi alla diagnosi, è stata seguita da un’innumerevole quantità di altri lavori condotti sullo stesso subset di pazienti e sulla sottopopolazione di donne con assenza di interessamento linfonodale; da tale mole di dati è derivata la realizzazione di lavori metanalitici che hanno definitivamente sancito l’efficacia della procedura.
L’analisi condotta su oltre 37.000 pazienti arruolate in studi clinici e randomizzate depone in maniera incontrovertibile in favore dell’efficacia della chemioterapia adiuvante; tal efficacia, espressa in termini di riduzione del rischio annuale di recidiva (RAOR) e del rischio annuale di morte (RAOD) è quantificabile intorno al 20-25% per il primo parametro ed intorno al 14-17% per il secondo, variando in ragione delle caratteristiche del regime chemioterapico utilizzato. Tali benefici sono riscontrabili in tutte le fasce d’ età. I vantaggi più consistenti si ottengono ovviamente nelle donne più giovani, con una riduzione annuale del rischio di recidiva del 37% e del rischio di morte del 27% per le pazienti d’ età inferiore ai 40 anni, con valori via decrescenti, fino a giungere ad una riduzione del RAOR del 18% e del RAOD dell’8% per le donne ultrasessantenni; questo fenomeno è facilmente spiegabile con la minore compliance delle donne anziane ai trattamenti chemioterapici, con conseguente riduzione delle dosi somministrate, e dalla crescente presenza, in tale fascia di età, di cause concorrenti di morte. Dalla disamina di tali dati, si evince come la riduzione del rischio di morte sia sovrapponibile tra i due subset prognostici (linfonodi positivi versus linfonodi negativi); i benefici della chemioterapia adiuvante sembrano essere indipendenti dall’associazione sequenziale o meno dell’ormonoterapia adiuvante. Il gold-standard terapeutico della polichemioterapia adiuvante è rappresentato dai regimi di combinazione contenenti antracicline (adriamicina o epirubicina), dimostratisi a più riprese superiori al tradizionale CMF sia in numerosi studi clinici controllati, che in un recente aggiornamento dello studio metanalitico citato in precedenza.
I risultati di tre recenti studi randomizzati sembrano inoltre deporre a favore dell’ipotesi che associando alle antracicline farmaci di ultima generazione quali il paclitaxel ed il docetaxel si possono ottenere ulteriori vantaggi in termini di sopravvivenza globale; il giudizio circa tale assunto deve considerarsi ancora non conclusivo a causa della presenza di inadeguatezza nel disegno degli studi aventi come oggetto il ruolo del pacilitaxel e per la presenza di un eccesso di mielotossicità secondaria indotta dal regime sperimentale contenente il docetaxel.
L’ormonoterapia adiuvante.
I farmaci appartenenti a tale categoria sono il primo esempio, di terapia “targetizzata”, che esplicando il proprio meccanismo d’azione a carico degli elementi cellulari che esprimano le molecole “bersaglio”, rappresentate dai recettori estrogenici (ER) e progestinici (PgR). Il tamoxifene è un modulatore selettivo dell’ER ed è il farmaco più utilizzato nella gestione clinica del carcinoma mammario sia nel trattamento adiuvante sia nella fase metastatica di malattia; nel primo contesto è stato ed è tuttora utilizzata sia come trattamento esclusivo, sia sequenzialmente alla chemioterapia. La metanalisi dell’EBCTCG, ha valutato che le pazienti con tumori ER+ che assumano tamoxifene dopo l’intervento chirurgico ottenesse una riduzione annuale del rischio di recidiva del 32 più meno 3% del rischio di morte del 20 più meno 3% rispetto alle pazienti che non assumono il farmaco, ed il beneficio appare d’entità significativa in tutte le fasce di età.
La durata ottimo del trattamento con Tamoxifene prevede la sua somministrazione per 5 anni, essendo il suo utilizzo per questo periodo dimostratosi superiore a periodi più brevi di trattamento (1 e 3 anni); il prolungamento dell’assunzione del tamoxifene oltre i 5 anni non sembra tradursi in alcun vantaggio, anzi dati recenti sembrano deporre per una sua detrimentalità. L’assunzione di tamoxifene si traduce inoltre in una riduzione del 50% circa del rischio da parte della paziente di sviluppare un carcinoma mammario controlaterale metacrono; come osservazione, si assiste a riduzione dei tassi di colesterolo LDL del 20% ed una riduzione di decessi per coronaropatia del 15%. L’effetto collaterale più temibile, è rappresentato dal rischio di sviluppare un carcinoma dell’endometrio; tale rischio appare peraltro di lieve entità, considerato che la mortalità per tale causa nella popolazione di donne che abbiano assunto il Tamoxifene come terapia adiuvante, a 10 di osservazione, non supera il 2 per mille.Una nuova categoria di farmaci, gli inibitori delle aromatasi, sta recentemente affermandosi nel setting adiuvante delle pazienti in post-menopausa. L’anastrozole ha dimostrato una significativa superiorità, espressa in termini di riduzione del rischio di recidive di malattia sia in sede che a distanza, nei confronti del tamoxifele; in uno studio pubblicato su Lancet nel 2002, le pazienti randomizzate ad assumere anastrozole hanno ottenuto, una riduzione del rischio del 2.4% rispetto alle donne che assumevano tamoxifene. Nessun vantaggio si è invece riscontrato nella terza fase dello studio, che prevedeva l’associazione dei due farmaci. L’eccesso di fratture ossee verificatesi prevalentemente a carico di somi vertebrali e dovute alla induzione e/oaggravamento dell’osteoporosi e l’osservazione di attività ipercolesterolemizzante da parte dell’anastrozole consigliano comunque un certo grado di cautela nell’adottarlo come standard terapeutico.
L’applicazione sequenziale di tamoxifene e di un antiaromatasico rappresenta un’altra strategia attualmente sotto investigazione. In pazienti in post-menopausa e gia sottoposte a 5 anni di somministrazione di tamoxifene, sono state randomizzate a ricevere ulteriori 5 anni di letrozole o un placebo. Lo studio è stato chiuso dopo la prima analisi ad interim condotta ad un follow-up mediano di 2.4 anni per eccesso di recidive nel braccio placebo. La somministrazione di anastrozole sequenziale dopo tre anni di tamoxifene si è dimostrata superiore rispetto alla prosecuzione dello stesso tamoxifene per ulteriori 2 anni in uno studio randomizzato multììstituzionale che ha arruolato 448 pazienti; le pazienti che assumevano anastrozole dopo i primi tre anni di tamoxifene hanno ricavato un vantaggio significativo espresso in termini di sopravvivenza libera da recidiva locale e a distanza rispetto alle pazienti che proseguivano per ulteriori due anni con il tamoxifene. L’altro grande capitolo dell’ormonoterapia adiuvante riguarda le pazienti in premenopausa con neoplasia caratterizzata da positività recettoriale. Per questo subset di pazienti, l’ablazione ovarica con tecnica chirurgica o radioterapia ha in passato dimostrato di essere efficace sia nel setting adiuvante che nella malattia metastatica; la possibilità di ottenere farmacologicamente una soppressione completa della funzione ovarica offre un’opzione terapeutica eticamente e clinicamente proponibile per questa sottopopolazione di pazienti. La classe di farmaci utilizzati in tale contesto è quella degli LH-RH agonisti (goserelin, triptorelina); lo studio clinico è stato condotto su 1.640 pazienti di età inferiore a 50 anni, premenopausali e con positività linfonodale ed ha posto a confronto il goserelin alla chemioterapia con schedala CMF. Ad un follow-up mediano di 7.3 anni, nella popolazione di pazienti esprimenti positività recettoriale, goserelin e CMF hanno ottenuto risultati sovrapponibili, sia in termini di sopravvivenza libera da ripresa di malattia che di sopravvivenza globale. L’enorme mole di dati accumulati nel tempo nel setting della terapia adiuvante del carcinoma mammario ha permesso di stilare delle linee guida che, pur non essendo vincolanti per l’oncologo clinico, dovrebbero rappresentare per esso un importante punto di riferimento.
La chemioterapia primaria (o “neo-adiuvante”).
La letteratura scientifica ci offre dati ormai consolidati per definire il ruolo spettante alla chemioterapia primaria: il suo diffuso utilizzo impatta favorevolmente sulla percentuale d’interventi conservativi coronati da successo, rispetto agli approcci tradizionali (chirurgia seguita da chemioterapia).
L’ottenimento della completa scomparsa del tumore, indotto dalla chemioterapia primaria si traduce in una significativa riduzione del rischio di recidiva locale, oltre a rappresentare un vero e proprio”test di chemiosensibilità in vivo”; quest’ultima possibilità potrebbe nel prossimo futuro farle assumere un ruolo rivoluzionario, grazie alla possibilità di definire il profilo gnomico del tumore, identificando quelli che correlino con la maggiore probabilità di ottenere una risposta clinica con la chemioterapia.
La terapia della fase metastatica.
Nonostante gli importanti progressi registrati nell’ambito dei trattamenti adiuvanti, oltre la metà delle pazienti con linfonodi positivi e circa il 20% delle pazienti con linfonodi negativi sono comunque destinate a sviluppare una ripresa di malattia locale o, più frequentemente, a distanza. Il carcinoma mammario metastatico resta a tutt’oggi una patologia non guaribile, per la quale è comunque possibile, con i trattamenti chemioterapici e/o ormonoterapici ottenere un significativo prolungamento della sopravvivenza ed una importante riduzione dell’entità e della frequenza di comparsa delle complicanze legate alla malattia, con importante ricaduta benefica sulla qualità di vita delle pazienti. La scelta del trattamento farmacologico da somministrare come prima linea è influenzato da numerose variabili cliniche e biologiche espresse dalla paziente.
Considerando che la sopravvivenza mediana delle pazienti che sviluppino una malattia metastatica oscilla tra i 24 e i 48 mesi, è chiaro come la scelta dovesse favorire l’efficacia del trattamento, ma anche e soprattutto debba tenerne in considerazione la tossicità, al fine di rispettare il più possibile la qualità di vita della paziente; ove possibile, pertanto, la prima scelta di trattamento deve essere riservata ai farmaci ormonali, caratterizzati dal profilo di tossicità più favorevole. A tal fine esistono dei veri e propri diagrammi di flusso in grado di supportare il clinico nella sua scelta:
Diagramma 1
Nelle pazienti po-stmenopausali, che esprimono tali caratteristiche, l’ormonoterapia, con inibitori delle aromatasi (letrozole, anastrozole o exemestane) è in grado di indurre remissioni di malattia, in oltre il 70% dei casi, con durata mediana di tali risposte cliniche oscillante tra i 17 ed i 26 mesi. Per le donne in pre-menopausa, i farmaci di scelta sono rappresentati dai LH-RH agonisti associati o meno al tamoxifene.
Diagramma 2
Questo secondo quadro clinico- biologico orienta la scelta in un ambito, quello dei chemioterapici antitumorali, molto più ampio di quello inerente ai farmaci ad attività antiormonale.
La classe di farmaci antitumorali considerati storicamente la base del trattamento del carcinoma mammario è quella delle antracicline (adriamicina ed epirubicina); somministrati da soli sono in grado di indurre remissioni cliniche, sebbene di breve durata, in circa il 50% dei casi. In associazione con altri farmaci (ciclofosfamide e fluorouracile, oppure taxani) la probabilità di ottenere una risposta sale al 70% ed oltre, con prolungamento della durata mediana delle remissioni stesse. I limiti al loro utilizzo sono rappresentati da una precedente esposizione terapeutica allo stesso farmaco con: a) intervallo libero intercorso dall’ultima somministrazione alla progressione di malattia inferiore ad un anno oppure b) raggiungimento di una dose cumulativa massima (450 mg/mq per l’adriamicina e 900 mg/mq per l’epirubicina) oltre la quale il rischio di indurre una cardiotossicità farmaco-indotta letale è superiore al 30% e quindi considerata inaccettabile. Nelle pazienti la cui storia clinica rientri in tale ambito, l’orientamento potrà essere diretto verso la famiglia dei taxani (paclitaxel e docetaxel); quest’ultimo, utilizzato in monoterapia alle dosi di 75-100 mg/mq ogni tre settimane è considerato unanimamente trattamento di prima scelta ed è in grado di indurre remissioni cliniche in percentuali oscillanti tra il 30 ed il 55%, con durata mediana del tempo libero da nuova progressione di malattia intorno ai 6 mesi. Nei casi che progrediscono dopo trattamento con un taxano, la capecitabine (profarmaco metabolizzato a fluorouracile dalla timidina-fosforilasi, enzima ad alta concentrazione intratumorale) ha dimostrato di poter indurre nuovamente delle remissioni e/o stabilizzazioni di malattia nel 20 e 40% dei casi rispettivamente, con una durata mediana di tali risposte di circa 8 mesi ed una sopravvivenza mediana delle pazienti così trattate superiore ad un anno.
Il progresso delle conoscenze inerenti alla biologia del carcinoma mammario, ha permesso, l’identificazione di un importante target terapeutico appartenente alla superfamiglia degli EGFR (fattori di crescita epiteliali), il c-erbB2; trattasi di un recettore tirosinokinasico transmembrana che è iperespresso nel 20-25% dei carcinomi mammari. Il trastuzumab è un anticorpo monoclonale chimerico, in grado, di riconoscere ed inattivare, il c-erbB2; esso si è inoltre dimostrato sinergico con numerosi chemioterapici antitumorali tradizionalmente attivi contro il tumore mammario, in assenza di tossicità sommativa, se si sclude la possibilità di incrementare la cardiotossicità tipica delle antracicline. In associazione a farmaci come il navelbine ed i taxani, il trastuzumab si è dimostrato in grado di indurre remissioni cliniche in oltre il 75% delle pazienti con iperespressione immunoistochimica d’intensità “3+” del c-erbB2, con notevole durata mediana delle risposte stesse e buona compliance da parte delle pazienti. Il futuro della farmacologia antitumorale del carcinoma mammario è rappresentato da nuove molecole dotate d’attività inibitoria nei confronti dei dominìì tirosino-kinasici degli EGFR o dagli anticorpi ad attività antiangiogenica (anti VEGF).