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Giuditta, simbolo del potere femminile in Artemisia Gentileschi

E' grazie alla passione, al talento e alla caparbietà di Artemisia Gentileschi, pittrice caravaggesca del seicento, e icona femminile del panorama artistico italiano, che si rivoluziona il ruolo delle donne pittrici ma anche l'indagine del tema femminile all'interno della pittura stessa.
Avviata alla carriera artistica dal padre, il pittore Orazio Gentileschi, Artemisia riesce fin da giovanissima a dare prova del suo grande talento, a tal punto che viene definita da Longhi come “l'unica donna in Italia che abbia mai saputo che cosa sia la pittura”.

Sebbene, Artemisia abbia spesso proposto figure femminili, eroiche e dominanti nei suoi dipinti, è con la prima versione della “Giuditta che decapita Oloferne” (1612) conservata a Napoli al museo Capodimonte, che la pittrice afferma la propria indipendenza stilistica, distaccandosi da quella del padre.

Nonostante il tema biblico di Giuditta avesse affascinato molti pittori già a partire dal Medioevo, è veramente affascinate la rielaborazione che ne fa Artemisia, che decide di immortalare proprio il momento cruento della decapitazione di Oloferne, elevando Giuditta al ruolo di eroina biblica vittoriosa e di donna potente, una vedova che per salvare il suo popolo seduce e uccide a sangue freddo il generale assiro, Oloferne, che teneva sotto assedio la città di Israele.
In questa prima versione, Artemisia dispone i personaggi in una inquadratura piuttosto serrata, che coinvolge direttamente l'osservatore che viene quasi catapultato dentro la tela e diventa a tutti gli effetti spettatore diretto di questa azione violenta. La luce che proviene da sinistra ed illumina l'intreccio di pallidi corpi dei personaggi, contribuisce al coinvolgimento drammatico dell'osservatore, che riesce a cogliere tutto il coraggio e l'orrore dell'azione, ma non solo, questo uso di derivazione caravaggesca dell'accentuato contrasto tra le zone di luce ed ombra incrementa, l'impressione della lotta in corso. Notiamo inoltre anche dalle lenzuola sfatte e dalla tensione dei corpi, il tentativo fallito di Oloferne di scampare al suo destino.
Molti studiosi, hanno inoltre legato la lettura di questo quadro, all'evento più drammatico della vita della Gentileschi, che appunto da giovane fu vittima di stupro da parte di un collaboratore del padre, il pittore Agostino Tassi; leggendo appunto l'opera come una rielaborazione psicologica del trauma, da parte della Gentileschi.
Purtroppo, la tela di Capodimonte, di cui si persero le tracce fino al 1827, risulta molto danneggiata a causa delle abrasioni subite e delle varie puliture corrosive, inoltre non ne conosciamo la grandezza originaria, dato che una porzione di tela venne amputata.

Passiamo adesso alla versione di “Giuditta che decapita Oloferne” (1620-21) conservata agli Uffizi di Firenze. Questa versione è stata composta sulla base dei cartoni preparatori della prima “Giuditta che decapita Oloferne” una tecnica che la Gentileschi aveva assimilatato dal padre, molto utile per apportare modifiche o produrre appunto delle copie in modo più agevole e veloce. Questa opera gli fu commissionata dal Granduca di Firenze, Cosimo II, alla cui corte la Gentileschi raggiunse l'apice del suo successo.

Rispetto alla prima versione, sono stati introdotti alcune variazioni, notevoli, intanto vediamo un uso di colori molto più preziosi, probabilmente richiesti dal committente, ma anche evidente segnale della sua affermazione come artista. Diversi sono anche i colori delle vesti, i tessuti divengono qui più ricchi ed elaborati, cosi come l'acconciatura di Giuditta, che viene anche rivestita di gioielli preziosi, inoltre compare sull'elsa della spada impugnata dalla protagonista la firma dell'artista: “Ego Artemitia Lomi Fec”.
Risulta, più studiato il movimento dei personaggi, disposti in una formazione piramidale, che ne accentua il dinamismo plastico, estremamente veri sono i movimenti, e le tensioni muscolari, che danno proprio il senso dello sforzo compiuto nell'atto della decapitazione, così come vero è il tentativo di lotta di Oloferne che cerca di alzare la testa e di liberarsi, mente Giuditta in un movimento opposto la spinge verso il basso; ad incrementare ulteriormente il dinamismo dei personaggi, è l'elsa della spada che copre e la mano della fantesca Abra, estremamente concentrata nel suo tentativo di immobilizzare Oloferne.
La luce va ad inondare e ad indirizzare lo sguardo proprio sulla testa della vittima, adagiata sulle lenzuola che sono oramai intrise di sangue.
Anche lo sfondo risulta più ampio, e profondo, e nel complesso questa seconda versione, si presenta, più sontuosa e matura, dal punto di vista stilistico e di coinvolgimento spettacolare, ed è rispetto alla prima versione completa e in uno stato di conservazione migliore rispetto alla versione del 1612.

Fonti:
"Artemisia Gentileschi, storia di una passione" a cura di R.Contini e F. Solinas
"Gentileschi padre e figlia" R.Longhi

Erica Toti

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